sabato 27 febbraio 2016

La candela che non voleva bruciare

Questo non si era mai visto: una candela che rifiuta di accendersi. Tutte le candele dell'armadio inorridirono. Una candela che non voleva accendersi era una cosa inaudita! Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate all'idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti. Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente: “No e poi no! Io non voglio bruciare. Quando veniamo accese, in un attimo ci consumiamo. Io voglio rimanere così come sono: elegante, bella e soprattutto intera”. “Se non bruci è come se fossi già morta senza essere vissuta - replicò un grosso cero, che aveva già visto due Natali - tu sei fatta di cera e stoppino ma questo è niente. Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice”. “No, grazie tante - rispose la candela rossa - ammetto che il buio, il freddo e la solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che brucia”. “La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna passarci dentro - continuò il cero - solo chi impegna il proprio essere cambia il mondo e allo stesso tempo cambia se stesso. Se lasci che la solitudine, buio e freddo avanzino, avvolgeranno il mondo”. “Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine? “Certo ribadì il cero - ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma diventiamo utili e stimati. Siamo i cavalieri della luce”. “Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore”. “Sì, ma siamo più forti della notte e del gelo del mondo” concluse il cero. Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere. Brillò nella notte con tutto il suo cuore e trasformò in luce la sua bellezza, come se dovesse sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo. La cera e lo stoppino si consumarono piano piano, ma la luce della candela continuò a splendere a lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.

domenica 9 agosto 2015

To do before to go

Ho fatto la valigia.
Sono sicura di aver dimenticato qualcosa.
Come ogni volta.

Sicuramente ho preso troppe magliette leggere.
Come ogni volta.

A Roma fa caldo, fa caldo ovunque.
Poi arrivo, e metto tutti i vestiti che ho portato uno sopra all'altro che omino della Michelin levati.
Come ogni volta.

Ho messo nuove canzoni nell'mp3, ho con me più libri di quanti ne potrei mai leggere in un anno (ebook, I love you), film a non finire e tutto il materiale - spero - che mi serve per studiare.

La reflex è pronta e ho delle nuove lenti da provare.

Dalla mia lista "to do before to go" ho depennato tutto. Solo qualche giorno fa mi sembrava infinita e impossibile, e invece pare che ho proprio fatto tutto.

Eppure mi sembra ancora di dimenticare qualcosa.
Me ne ricorderò domani, a metà strada.

Esattamente come ogni volta.

lunedì 29 dicembre 2014

E ciò che manca è palese.

In stazione, loro si abbracciano
lei piange
io sbadiglio distante,
ho dormito poco e non provo niente.

Le cose più amare d'amare
hanno il sapore del mare
le rivesti con cura di uno strato di nulla
così ti si abbinano al colore degli occhi

E mettimi alla prova
con gli occhiali da sole ci siamo persi di vista
e senza occhiali da vista ci siamo persi alla luce del sole

Il nostro rapporto è così vuoto
che se ti parlo sento l'eco
e se ripetiamo i soliti discorsi
beh, questo è il motivo.

Rimetti insieme i pezzi ma partendo dagli angoli
siamo abbastanza a pezzi e grandi per sapere che non esistono i miracoli
e non ho paura del tuo buio
il buio ha soltanto un colore
ho paura dell'amore
che è pieno di sfumature
e se tutto sfuma non sono bravo a calcare i contorni
e se torni dove dormi che ho già spostato i mobili
rimaniamo immobili nei nostri cuori di marmo
nei nostri modi di merda, nel nostro sarcasmo e mi pare
che ciò che manca è palese

E se ti va possiamo uscire a pranzo
e se i soldi ci avanzano
possiamo
possiamo comprarci il mondo
possiamo comprarci il mondo

Le parole con cui mi dipingono
e tutte le pinte in cui ogni sera sparisco
spesso tra loro differiscono
e a fatica mi racconti di noi in differita
se non ti ascolto ti senti ferita nell'animo
siamo emergenti che affogano.

E se ti va possiamo comprarci il mondo.

Dimmi se la musica ci salverà
è l'unico credo che indosso
ho un cuore di riserva nella tasca del giubbotto
che spesso mi riversa addosso questo splendido consiglio
e se ti va,
potresti abbracciarmi non ho le forze per farlo da solo
e se non funziona
prendiamoci un volo che forse qua al suolo non si ragiona
per andare avanti tiriamo calci alle somme
insomma sei un bellissimo fiume di pixel
ma ho bisogno di qualcosa di più grande
che magari nemmeno esiste
se non quando chiudo gli occhi,
scusa, ma è inutile che torni
che ho tolto i mobili
ho cambiato indirizzo
ho portato via tutti i dischi
e sto bene.

(Quello che manca - L'orso)

giovedì 6 febbraio 2014

Zero - Anche i frigoriferi vanno in paradiso

Anche questo è un post recuperato dal mio vecchio blog. C'è stato un tempo, sempre al liceo, in cui scrivevo poesie. Questo è uno dei miei componimenti migliori. In memoria del defunto frigorifero.

16/03/2008 13.52.28
O Frigo,
tu, compagno di mille merende
tu, battericida di tanti biberon
tu, testimone di tanti gelati
tu, fredda finestra nelle estati più torride
tu, che hai visto tante torte
e ancora più budini e merendine fresche
tu, ospite di tanti surgelati
tu, che col tuo reparto zero accoglievi stracchini, mozzarelle e salumi
tu, che con le tue fredde membra cullavi i tiramisù
tu e la tua fredda pelle di acciaio
su cui, come piercing e tatuaggi, trovavano dimora calamite,
figurine, diete e foto di personaggi famosi.
Tu, fresco compagno
ingiustamente colpito al cuore in una tiepida mattina di marzo
da un inesperto idraulico-pseudo scultore di ghiaccio,
che nel tentativo di aggiustare quello che in realtà era solo un neo
nella tua immensa perfezione, 
ti ha colpito in pieno,
e io, sentendo le tue strazianti grida di dolore
(e ancor più gli insulti del tuo assassino)
sono accorsa per vederti spirare le ultime molecole
di gas refrigerante che scorrevano nei tuoi tubi.
Tu frigo, amico fedele, che mi hai visto crescere
che hai cambiato dimora,
compagno silenzioso di merende e stuzzichini segreti,
resterai per sempre nel mio cuore.
Rimpiazzato subito dal tuo assassino e dalla sua perfida moglie
che non faceva altro che augurarti la fine della lavatrice (e non era un buon augurio)
il tuo sostituto non riuscirà mai a prendere il tuo posto,
ogni volta che mi chinerò per prendere qualcosa penserò a com'erano sistemati comodamente i tuoi scomparti
e a come il congelatore se ne stava buono in un angolo
e ogni panino che mangerò, mi ricorderà per sempre il tuo immenso reparto zero.
Amico fedele, con me ti piangono Max Pezzali, Robbie Williams e Aladdin,
il vichingo calamitico danese, souvenir mai pienamente apprezzato,
il cornetto finto, bramato ad ogni pasto,
il pinguino e le foche, tuoi freschi amici
e in fondo al loro cuore anche il tuo assassino e la sua megera moglie.
Mio fedele amico, sono sicura che lassù ove il tuo refrigerante spirito è volato
sarai sicuramente in compagnia del pesce spada e del delfino,
tuoi cari amici scomparsi prima di te.
O Frigo, sarai sempre nei nostri cuori.
 
Refrigera IPace

Razionali macchine da guerra

Come qualcuno saprà, per varie vicissitudini recentemente ho recuperato il backup di uno dei blog che tenevo ai tempi del liceo, quello più privato e personale (sì, ero una piccola nerd in erba che aveva un blog pubblico e uno personale, alti livelli!). Pian piano sto rileggendo tutto, la maggior parte sono post stupidi in cui racconto la mia giornata tipo, ma ogni tanto qualcosa di bello lo scrivevo anche all'epoca. E mi sembra giusto, visto che quel blog non è più online, riproporlo qui.

Razionali macchine da guerra.

19/11/2007 18.17.29
"A scuola, sopratutto quest'anno stiamo approfondendo molto il fatto razionale-irrazionale e ciò che rispettivamente rappresenta ciò, la razionalità è bene, è luce, è dispari, è armonia, è un triangolo che poggia sulla base.
L'irrazionalità è male,  oscura, è pari, è caos, è un triangolo rovesciato.

Lo scientifico serve a creare menti razionali. Perfette macchine da guerra in grado di risolvere un equazione parametrica, di operare un'altro essere umano, di capire che se uno non riesce a pronunciare il nome dell'oggetto che ha in mano ha un problema all'encefalo destro.

La cosa più "umana" che potremo mai studiare allo scientifico è la filosofia che, ops, anche i filosofi stessi dicono sia inutile. Che "quando serve, non è più filosofia, ma scienza"

Usciremo da qui come delle perfette scientifiche macchine da guerra.
La razionalità, la precisione, la scientificità (si dice così?) sono tutto.

Qui non c'è posto per i sentimenti. Sì, puoi analizzare una poesia e dire che sentimenti dovrebbe trasmettere. Ma non è detto che tu provi quei sentimenti.  E se li provi sei debole, non vai in fondo. Sei "passionale" non "scientifico". Non sei più quella macchina da guerra che dovresti essere.

Questo va bene. Saremo macchine da guerra pronte ad affrontare razionalmente tutto della vita. Pronti a scandagliare tutto ciò che ci circonda pronti a trovare cause ed effetti delle cose.

Ma quando la perfetta e razionale macchina da guerra si trova davanti ad una sensazione, come la paura, razionalmente assurda, perché la macchina da guerra ha analizzato e valutato tutti i rischi, ma irrazionalmente bloccata.. cosa fa?"

domenica 7 luglio 2013

Il disco si posò

Riporto il racconto che mi hanno segnalato nei commenti al post sui robottini, mi è davvero piaciuto molto e penso valga la pena perdere qualche minuto per dargli un'occhiata :)

Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (l’ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l’inspiegabile serenità del mondo, l’odor di fumo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand’ecco il disco volante si posò sul tetto della chiesa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese.
All’insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l’ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, compatto, simile a una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò a uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto.
Lassù nella sua camera che dà sul tetto della chiesa, il parroco, don Pietro, stava leggendo, col suo toscano in bocca. All’udire l’insolito ronzio, si alzò dalla poltrona e andò ad affacciarsi al davanzale. Vide allora quel coso straordinario, colore azzurro chiaro, diametro circa dieci metri.
Non gli venne paura, né gridò, neppure rimase sbalordito. Si è mai meravigliato di qualcosa il fragoroso e imperterrito don Pietro? Rimase là, col toscano, ad osservare. E quando vide aprirsi uno sportello, gli bastò allungare un braccio: là al muro c’era appesa la doppietta.
Ora sui connotati dei due strani esseri che uscirono dal disco non si ha nessun affidamento. È un tale confusionario, don Pietro. Nei successivi suoi racconti ha continuato a contraddirsi. Di sicuro si sa solo questo: ch’erano smilzi e di statura piccola, un metro un metro e dieci. Però lui dice anche che si allungavano e si accorciavano come fossero di elastico. Circa la forma, non si è capito molto: «Sembravano due zampilli di fontana, più grossi in cima e stretti in basso» così don Pietro «sembravano due spiritelli, sembravano due insetti, sembravano scopette, sembravano due grandi fiammiferi.» «E avevano due occhi come noi?» «Certo, uno per parte, però piccoli.» E la bocca? e le braccia? e le gambe? Don Pietro non sapeva decidersi: «In certi momenti vedevo due gambette e un secondo dopo non le vedevo più... Insomma, che ne so io? Lasciatemi una buona volta in pace!».
Zitto, il prete li lasciò armeggiare col disco. Parlottavano tra loro a bassa voce, un dialogo che assomigliava a un cigolio. Poi si arrampicarono sul tetto, che ha una moderatissima pendenza, e raggiunsero la croce, quella che è in cima alla facciata. Ci girarono intorno, la toccarono, sembrava prendessero misure. Per un pezzo don Pietro lasciò fare, sempre imbracciando la doppietta. Ma all’improvviso cambiò idea.
«Ehi!» gridò con la sua voce rimbombante. «Giù di là, giovanotti. Chi siete?»
I due si voltarono a guardarlo e sembravano poco emozionati. Però scesero subito, avvicinandosi alla finestra del prevosto. Poi il più alto cominciò a parlare.
Don Pietro – ce lo ha lui stesso confessato – rimase male: il marziano (perché fin dal primo istante, chissà perché, il prete si era convinto che il disco venisse da Marte; né pensò di chiedere conferma), il marziano parlava una lingua sconosciuta. Ma era poi una vera lingua? Dei suoni, erano, per la verità non sgradevoli, tutti attaccati senza mai una pausa. Eppure il parroco capì subito tutto, come se fosse stato il suo dialetto. Trasmissione del pensiero? Oppure una specie di lingua universale automaticamente comprensibile?
«Calmo, calmo» lo straniero disse «tra poco ce n’andiamo. Sai? Da molto tempo noi vi giriamo intorno, e vi osserviamo, ascoltiamo le vostre radio, abbiamo imparato quasi tutto. Tu parli, per esempio, e io capisco. Solo una cosa non abbiamo decifrato. E proprio per questo siamo scesi. Che cosa sono queste antenne? (e faceva segno alla croce). Ne avete dappertutto, in cima alle torri e ai campanili, in vetta alle montagne, e poi ne tenete degli eserciti qua e là, chiusi da muri, come se fossero vivai. Puoi dirmi, uomo, a cosa servono?»
«Ma sono croci!» fece don Pietro. E allora si accorse che quei due portavano sulla testa un ciuffo, come una tenue spazzola, alta una ventina di centimetri. No, non erano capelli, piuttosto assomigliavano a sottili steli vegetali, tremuli, estremamente vivi, che continuavano a vibrare. O invece erano dei piccoli raggi, o una corona di emanazioni elettriche?
«Croci» ripeté, compitando il forestiero. «E a che cosa servono?»
Don Pietro posò il calcio della doppietta a terra, che gli restasse però sempre a portata di mano. Si drizzò quindi in tutta la statura, cercò di essere solenne:
«Servono alle nostre anime» rispose. «Sono il simbolo di Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, che per noi è morto in croce.»
Sul capo dei marziani all’improvviso gli evanescenti ciuffi vibrarono. Era un segno di interesse o di emozione? O era quello il loro modo di ridere?
«E dove, dove questo sarebbe successo?» chiese sempre il più grandetto, con quel suo squittio che ricordava le trasmissioni Morse; e c’era dentro un vago accento di ironia.
«Dio, vuoi dire, sarebbe venuto qui, tra voi?»
«Qui, sulla Terra, in Palestina.»
Il tono incredulo irritò don Pietro.
«Sarebbe una storia lunga» disse «una storia forse troppo lunga per dei sapienti come voi.»
In capo allo straniero la leggiadra indefinibile corona oscillò due tre volte. Pareva che la muovesse il vento.
«Oh, dev’essere una storia magnifica» fece con condiscendenza. «Uomo, vorrei proprio sentirla.»
Balenò nel cuore di don Pietro la speranza di convertire l’abitatore di un altro pianeta? Sarebbe stato un fatto storico, lui ne avrebbe avuto gloria eterna.
«Se non vuoi altro» disse, rude. «Ma fatevi vicini, venite pure qui nella mia stanza.»
Fu certo una scena straordinaria, nella camera del parroco, lui seduto allo scrittoio alla luce di una vecchia lampada, con la Bibbia tra le mani, e i due marziani in piedi sul letto perché don Pietro li aveva invitati ad accomodarsi, che si sedessero sul materasso, e insisteva, ma quelli a sedere non riuscivano, si vede che non ne erano capaci e tanto per non dir di no alla fine vi erano saliti, standovi ritti, il ciuffo più che mai irto e ondeggiante.
«Ascoltate, spazzolini!» disse il prete, brusco, aprendo il libro, e lesse: “...l’Eterno Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino d’Eden... e diede questo comandamento: Mangia pure liberamente del frutto di ogni albero del giardino, ma del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare: perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo sarà la tua morte. Poi l’Eterno Iddio...”
Levò gli sguardi dalla pagina e vide che i due ciuffi erano in estrema agitazione. «C’è qualcosa che non va?».
Chiese il marziano: «E, dimmi, l’avete mangiato, invece? Non avete saputo resistere? È andata così, vero?».
«Già. Ne mangiarono» ammise il prete, e la voce gli si riempì di collera. «Avrei voluto veder voi! È forse cresciuto in casa vostra l’albero del bene e del male?»
«Certo. È cresciuto anche da noi. Milioni e milioni di anni fa. Adesso è ancora verde...»
«E voi?... I frutti, dico, non li avete mai assaggiati?».
«Mai» disse lo straniero. «La legge lo proibisce.»
Don Pietro ansimò, umiliato. Allora quei due erano puri, simili agli angeli del cielo, non conoscevano peccato, non sapevano che cosa fosse cattiveria, odio, menzogna? Si guardò intorno come cercando aiuto, finché scorse nella penombra, sopra il letto, il crocefisso nero.
Si rianimò: «Sì, per quel frutto ci siamo rovinati... Ma il figlio di Dio» tuonò, e sentiva un groppo in gola «il figlio di Dio si è fatto uomo. Ed è sceso qui tra noi!»
L’altro stava impassibile. Solo il suo ciuffo dondolava da una parte e dall’altra, simile a una beffarda fiamma.
« È venuto qui in Terra, dici? E voi, che ne avete fatto? Lo avete proclamato vostro re?... Se non sbaglio, tu dicevi ch’era morto in croce... Lo avete ucciso, dunque?»
Don Pietro lottava fieramente: «Da allora sono passati quasi duemila anni! Purtroppo per noi è morto, per la nostra vita eterna!».
Tacque, non sapeva più che dire. E nell’angolo scuro le misteriose capigliature dei due ardevano, veramente ardevano di una straordinaria luce. Ci fu silenzio e allora di fuori si udì il canto dei grilli.
«E tutto questo» domandò allora il marziano con la pazienza di un maestro «tutto questo è poi servito?»
Don Pietro non parlò. Si limitò a fare un gesto con la destra, sconsolato, come per dire: che vuoi? siamo fatti così, peccatori siamo, poveri vermi peccatori che hanno bisogno della pietà di Dio. E qui cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani.
Quanto tempo passò? Ore, minuti? Don Pietro fu riscosso dalla voce degli ospiti. Alzò gli occhi e li scorse già sul davanzale, in procinto, si sarebbe detto, di partire. Contro il cielo della notte i due ciuffi tremolavano con affascinante grazia.
«Uomo» domandò il solito dei due. «Che stai facendo?»
«Che sto facendo? Prego!... Voi no? Voi non pregate?»
«Pregare, noi? E perché pregare?»
«Neanche Dio non lo pregate mai?»
«Ma no!» disse la strana creatura e, chissà come, la sua corona vivida cessò all’improvviso di tremare, facendosi floscia e scolorita.
«Oh, poveretti» mormorò don Pietro, ma in maniera che i due non lo udissero come si fa con i malati gravi. Si levò in piedi, il sangue riprese a correre con forza su e giù per le sue vene. Si era sentito un bruco, poco fa. E adesso era felice. “Eh, eh” ridacchiava dentro di sé “voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio.” (I due intanto si erano già infilati dentro allo sportello, lo avevano chiuso, e il motore già girava con un sordo e armoniosissimo ronzio. Piano piano, quasi per miracolo, il disco si staccò dal tetto, alzandosi come fosse un palloncino: poi prese a girare su se stesso, partì a velocità incredibile, su, su in direzione dei Gemelli.) «Oh» continuava a brontolare il prete «Dio preferisce noi di certo! Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgon la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?»
Per la gioia, imbracciò lo schioppo, mirò al disco volante che era ormai un puntolino pallido in mezzo al firmamento, lasciò partire un colpo. E dai remoti colli rispose l’ululio dei cani.

                da: Dino Buzzati
                “La boutique del mistero”
                Ediz. Mondadori, 1968.
                Pagg. 138-143.